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Cucina giapponese: il vegetarianismo di Stato

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Se ponessimo a qualcuno la domanda “Quale era il tipo di carne più consumato in Giappone attorno all’anno Mille?”, in quanti sarebbero in grado di replicare con esattezza?

 

A parte la risposta corretta, l’argomento potrebbe apparire alquanto bizzarro, se non addirittura riconducibile ad una questione di lana caprina, sollevata per argomenti di scarsa rilevanza.

Ma per uno Chef professionista il tema non è cosa di poca importanza. Il primo ragionamento che viene in mente è quello di pensare alle varie tipologie di carne: sarà il manzo, il maiale, l’agnello? O una carne di volatile come quella del pollo o dell’anatra? O uno dei tanti pesci diffusi in Giappone, tra i quali il tonno, l’anguilla o il temibile fugu (pesce palla) con la spada di Damocle della sua letale tetradotossina?

Queste ipotesi, o ogni altra supposizione plausibile, sono tutte errate poiché la risposta esatta è “nessuna”. E vediamo perché.

Per rispondere correttamente alla domanda è necessario compiere un balzo nel tempo fino a risalire al VII secolo quando, in seguito alla affermazione del Buddhismo, venne introdotto un vegetarianismo di stato che proibiva tassativamente il consumo di ogni tipo di carne, divieto applicato soprattutto nei confronti delle carni rosse.

Nella maggior parte della tradizione iconografica orientale troviamo spesso il Bhudda raffigurato con una ciotola nella mano sinistra, simbolo di un’alimentazione essenziale e moderata, mentre nella cultura occidentale si tende erroneamente ad identificare il buddismo con una alimentazione essenzialmente vegetariana. Ma non è così.

Va sottolineato infatti che Bhudda, pur ispirando delle linee guida tese a promuovere un consumo frequente di vegetali (soprattutto cereali, legumi, ortaggi e frutta), non mise mai ufficialmente al bando il consumo della carne.

E dai suoi insegnamenti traspariva soprattutto il messaggio che rinunciare al consumo di alimenti di origine animale, provenienti da creature innocenti, era l’espressione di uno stile e di una filosofia di vita in linea con la sua dottrina, basata sulla meditazione e sulla rinuncia, presupposti essenziali per una vita serena e per raggiungere quell’equilibrio verso il quale ogni essere umano deve tendere.

All’epoca venne stilato addirittura un dettagliato elenco degli animali vietati (675 specie) e le uniche trasgressioni consentite riguardavano alcune situazioni particolari, come alcuni periodi invernali caratterizzati da un clima molto rigido, o nel caso dell’alimentazione di persone fortemente debilitate.

Tali disposizioni rimasero in vigore per svariati secoli e solo a partire dal 1872, in seguito all’arrivo dei primi coloni europei e alla conseguente scomparsa dell’isolamento culturale che fino ad allora aveva caratterizzato il Giappone e, complice anche la commistione con la gastronomia occidentale, venne ripristinato (seppur lentamente) il consumo della carne.

Oggi la carne è presente nella maggior parte dei piatti della cucina giapponese la cui punta di diamante è il famoso manzo di Kobe, proveniente dalla città giapponese famosa per la pregiata carne di razza Wagyu, considerata tra le migliori al mondo, e il cui prezzo, in base al livello di marmorizzazione (il rapporto tra grassi saturi e insaturi) della carne può arrivare a sfiorare i 2.000 euro al chilo!

Chef Giorgio Rosato

Web MasterChef –  Projects Food Web Specialist

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