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Degustazione sensoriale: Dissonanza cognitiva tra contenuto e contenitore

Cosa accade quando un buongustaio, dall’appetito vorace e non avvezzo alle ovattate atmosfere che aleggiano nelle cucine stellate, ordina al ristorante una carbonara e dopo quindici minuti si vede arrivare un piatto di grosse dimensioni con 3 paccheri, 2 fette di guanciale croccante, 1 tuorlo d’uovo pochè e una manciata di scaglie di pecorino sparse sugli ingredienti? La reazione istintiva, a prima vista, è quella di una grossa delusione, accompagnata dalla consapevolezza di alzarsi comunque da tavola con un senso di fame. Eppure gli ingredienti della carbonara ci sono tutti, ma l’allestimento adottato dallo chef nel dressage del piatto, e soprattutto le quantità, non suscitano alcuna sensazione positiva nelle sue papille gustative, né gli lasciano in alcun modo preconizzare quella che poteva essere una memorabile esperienza multisensoriale legata al suo piatto preferito.

La dissonanza cognitiva tra la pietanza (carbonara=contenuto) e l’impiattamento (stile gourmet=contenitore) disorienta completamente i suoi sensi e neanche le meditate e perfette geometrie del piatto, o l’eccellenza qualitativa degli ingredienti utilizzati, riescono a  trasmettere il reale valore percepito espresso da una portata che sembra quasi un’opera d’arte.

Non a caso Gualtiero Marchesi sosteneva che “La cucina è una scienza e sta al cuoco farla diventare un’arte”. Ed è proprio nel mondo dell’arte che si è innescata, circa quarant’anni fa, quella metamorfosi che ha portato alla lenta ma inesorabile affermazione del contenitore (museo), diventato ormai preponderante rispetto al contenuto (opere d’arte).

L’inizio di questa mutazione risale alla fine degli anni Settanta, con l’inaugurazione del famoso “Centre Pompidou” di Parigi. Il mega museo dalle forme simili a quelle di una enorme raffineria, realizzato da un team guidato da Renzo Piano e spuntato dal nulla nel cuore della capitale francese a pochi passi dalla cattedrale di Notre Dame. Da allora i musei progettati dalle “archistar” si sono moltiplicati a macchia d’olio, sempre costruiti rigorosamente all’insegna dell’estrema esasperazione architettonica e del design avveniristico. In molti casi inoltre, come ad esempio nel Guggenheim di Bilbao, il museo è diventato un’attrazione turistica internazionale in grado di attirare pubblico da tutto il mondo. Anche se i visitatori accorrono più per scattare l’immancabile selfie davanti alle sue ardite linee geometriche, disegnate dal canadese Frank O. Gehry,  che non per ammirare i capolavori di arte contemporanea racchiusi nelle sale del Museo. E persino il classico e austero Louvre, uno dei più celebri musei al mondo (il terzo per numero di visitatori), quando ha deciso di rinfrescare il suo look in occasione del bicentenario della Rivoluzione Francese (1989) non ha esitato ad innalzare nella sontuosa Cour Napoléon, il maggiore dei due cortili del Museo, le famose piramidi di vetro (opera dell’architetto sino-americano Ieoh Ming Pei). Nonostante le feroci critiche avanzate alla presentazione del progetto (analoghe a quelle che esattamente 100 anni prima avevano bersagliato la Torre Eiffel), anche le piramidi del Louvre hanno destato un grande interesse e riscosso un immediato successo all’indomani dell’inaugurazione. Esattamente com’è avvenuto l’estate scorsa alla riapertura (post Covid) dell’Osteria Francescana di Massimo Bottura in occasione della presentazione del suo nuovo menu degustazione (With A Little Help From My Friends) ispirato ai Beatles.

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Testo di GIORGIO ROSATO – Chef  Professionista, giornalista (49 libri), globetrotter (71 Paesi) ed Executive Chef in un ristorante nelle Langhe – Autore di rubriche su diversi web magazine del food, è spesso ospite negli show cooking televisivi (Alice TV, Canale Italia, SKY).

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