Il salmone rappresenta indubbiamente uno degli ingredienti più utilizzati nelle preparazioni del fine dining e, in misura minore, figura sempre più spesso anche in numerose ricette dell’easy dining.
Già, ma di quale salmone stiamo parlando? Di quello selvaggio, di grande qualità, venduto intorno ai 40/45 euro al chilo (60/70 euro per la versione affumicata)? O di quello di allevamento che si trova soprattutto nei canali della grande distribuzione, disponibile a prezzi molto più economici (circa 20 euro al chilo)?
Per districarsi in questo semplice (ma in realtà assai complesso) quesito iniziamo da una breve disamina dei due prodotti, per passare successivamente all’analisi di una serie di dati inquietanti segnalati da alcuni organismi che si occupano di protezione ambientale e dintorni. Dati che, seppur presi con una certa cautela, non possono tuttavia essere ignorati, oltre che dal pubblico dei consumatori, anche dall’intero universo degli addetti del mondo della ristorazione.
Il salmone selvaggio è quel salmone pescato direttamente nel suo habitat naturale (mare, laghi e fiumi) dove ha trascorso la sua vita in perenne movimento nel risalire impetuosi corsi d’acqua, percorrendo distanze di migliaia di chilometri, come un body-builder che si reca ogni giorno in palestra per mantenere in perfetta forma il suo fisico. Ed è per questo che le sue carni sono compatte, povere di grassi e più ricche di sali minerali tra cui potassio, zinco e ferro. Anche il suo colore rosso-arancio è particolarmente intenso grazie alla dieta naturale basata soprattutto su krill e gamberetti.
Il salmone di allevamento invece è tutt’altra cosa, sia per quanto riguarda il colore della carne, assai più sbiadito rispetto a quello degli esemplari catturati in natura, sia per la sua consistenza e la componente lipidica. Il salmone d’allevamento infatti è molto più grasso, contiene una maggiore quantità di Omega 3 e 6 e circa il triplo di grassi saturi, valore che (a parità di peso) si traduce in un incremento di circa il 50% calorie in più.
Ed è proprio sul salmone di allevamento che negli ultimi tempi si sono maggiormente abbattuti gli strali della critica ambientalista che, com’è ormai consuetudine, hanno rivolto appelli in ogni direzione affinché tale pratica sia abolita. Sia per salvaguardare la sopravvivenza del salmone selvaggio, sia per proteggere i consumatori da un ingrediente che rispetto a quello originale sembra avere ben poco da spartire.
Come già accennato ci sembra doveroso ribadire che, nonostante le varie riserve che ciascuno potrebbe legittimamente avanzare sull’argomento, si tratta comunque di informazioni che meritano di essere attenzionate.
Intanto vediamo quali sono i Paesi europei maggiormente coinvolti nell’allevamento dei salmoni. La maggior parte delle aziende europee di allevamento di salmoni si trova oggi in Scozia, Norvegia, Irlanda (primo Paese europeo per la produzione del salmone biologico) e Islanda.
Nella maggior parte dei casi gli allevamenti ittici sono collocati in recinti reticolati che, secondo gli ambientalisti, costituirebbero una minaccia per il salmone selvaggio dell’Atlantico, a causa della diffusione di malattie nelle acque circostanti che verrebbero trasmesse ai salmoni che circolano liberamente negli habitat marini e fluviali.
Tra le critiche più forti avanzate di recente va senz’altro segnalata quella evidenziata da Patagonia, un’azienda americana specializzata in abbigliamento tecnico, molto sensibile alle tematiche riguardanti la protezione dell’ambiente.
Questa azienda ha prodotto alcuni anni fa (2019) un docufilm (Artifishal) nel quale venivano lanciati una serie di allarmi riguardanti proprio la produzione intensiva dei salmoni di allevamento.
Ed in particolar modo quelli prodotti in Islanda dove, secondo il documentario di Patagonia, la situazione è talmente grave che la stessa azienda si è fatta promotrice di una petizione internazionale per abolire questo tipo di allevamenti ittici e vietare la pratica dell’allevamento nei recinti in mare aperto.
Non a caso inoltre l’anteprima mondiale del film di è svolta proprio in Islanda il cui Governo, in quel periodo, stava votando la liberalizzazione delle licenze degli allevamenti intensivi dei salmoni.
Vediamo in sintesi quali sono state le critiche più pesanti scaturite dalla visione del film prodotto da Patagonia sui salmoni, a cominciare dal colore della loro carne. Il salmone degli allevamenti intensivi infatti, come viene ampiamente sottolineato nel documentario, “Non nasce, né cresce arancione perché nelle reti in mare aperto dove viene allevato non si nutre né di gamberi né di krill, come fanno i salmoni selvaggi”.
Soprattutto a causa della loro alimentazione, basata prevalentemente su mangimi animali importati dal Brasile, antibiotici, ormoni e additivi.
E per questo motivo la loro carne è in realtà incolore, grigia, fino a pochi giorni dalla macellazione quando viene colorata artificialmente. Ancora una volta ricorrendo a sostanze chimiche (soprattutto integratori a base di carotene), tanto che diversi studi hanno rilevato che gli allevamenti europei di salmone hanno più sostanze contaminanti rispetto a quelli americani. Oltre ai danni per la salute, va sottolineato comunque che l’utilizzo di additivi chimici fa lievitare i costi di allevamento di oltre il 20%, assicurando ovviamente maggiori introiti ai produttori.
“Se il salmone d’allevamento fosse grigio, tutti comprerebbero salmone selvaggio”, ha dichiarato Mikael Frodin, pescatore di salmoni svedese e ambasciatore di Patagonia, “e in questo modo la gente non li distingue, trova un colore che riconosce e compra il salmone meno caro che trova sul banco, quello di allevamento. Così si spingono fuori dal mercato i produttori di salmone selvaggio. Noi compriamo e mangiamo l’imitazione di un pesce, mentre il pesce originale scompare. Sarebbe buffo, se non fosse tragico”.
Oltre a rappresentare un potenziale pericolo per la sicurezza alimentare della popolazione, sembra che gli allevamenti intensivi di salmone costituiscano anche una pesante minaccia per la biodiversità, come ha sottolineato Josh “Bones” Murphy, produttore e regista del film sponsorizzato da Patagonia: “E’ questione di chiederci se vogliamo che rimanga qualcosa di selvaggio in natura. O se vogliamo addomesticare ogni singola specie, creando una nuova natura a misura dei bisogni umani”.
Testi e foto: Giorgio Rosato